“Another Brick in the Wall, part 2” è stata scritta dai Pink Floyd alla fine degli anni ’70 e fa parte dell’album “The Wall”, un’opera concettuale che racconta il progressivo isolamento psicologico del protagonista.
L’intero disco ruota attorno al tema della costruzione di un muro metaforico, un meccanismo di difesa interiore che serve a proteggersi – o meglio, a isolarsi – dal mondo esterno. Questo muro rappresenta una barriera contro la società e persino contro le persone più vicine, perché, secondo la visione dell’album, più ci apriamo al contatto con il mondo, più rischiamo di perdere la nostra identità.
In questo processo di spersonalizzazione diventiamo vittime delle distorsioni della società stessa: costretti a subire imposizioni arbitrarie, ordini insensati, l’autorità che abusa del proprio potere, il tradimento da parte di chi ci è vicino, fino ad arrivare persino a subire un eccesso di controllo da parte di una figura genitoriale troppo soffocante.
Pink, il protagonista dell’album, attraversa una serie di traumi che contribuiscono alla costruzione del suo muro interiore: la perdita del padre in guerra, che lo lascia con un vuoto affettivo mai colmato; una madre iperprotettiva che, nel tentativo di proteggerlo dal dolore, finisce per soffocarlo; un sistema scolastico oppressivo che mortifica la sua individualità; il tradimento della moglie, che mina ulteriormente la sua fiducia negli altri; e infine la realtà del successo come rockstar, in cui gli agenti e l’industria musicale lo trattano come una semplice macchina da soldi, ignorando completamente la sua fragilità emotiva e il suo crescente disagio psicologico.
Tutti questi eventi diventano mattoni simbolici nel muro che lo isola progressivamente dal mondo e che, dopo un’iniziale forma di reazione, culminano nella completa alienazione.
In realtà, “Another Brick in the Wall” non è un singolo brano, ma una trilogia di canzoni che si sviluppa in tre parti distribuite in momenti diversi dell’album “The Wall”. La più celebre delle tre è senza dubbio la parte II, in cui i Pink Floyd denunciano con forza il sistema scolastico britannico dell’epoca, accusandolo di essere rigido, repressivo e disumanizzante.
Attraverso versi taglienti e un ritornello corale diventato iconico (“We don’t need no education”), la canzone critica un’educazione autoritaria che non lascia spazio alla creatività né all’individualità degli studenti.
Il videoclip
Il videoclip di “Another Brick in the Wall – Part 2” amplifica in modo visivo e potente il messaggio della canzone, mostrando un sistema scolastico che non solo istruisce, ma uniforma.
I bambini vengono rappresentati come elementi indistinti all’interno di una catena di montaggio, spogliati della loro identità e trattati come prodotti industriali, plasmati da un meccanismo educativo che li vuole docili, omologati e privi di spirito critico.
In una delle scene più forti del video, gli studenti vengono letteralmente inseriti in un enorme tritacarne, trasformati in carne macinata: un’immagine simbolica che denuncia con forza la brutalità del sistema educativo e il suo potenziale annientante.
Tuttavia, in un momento di ribellione collettiva, i ragazzi si sollevano contro i propri insegnanti e arrivano persino a dare fuoco alla scuola, in un atto di rivalsa contro l’oppressione subita.
Ma questo gesto rivoluzionario si rivela presto una fantasia: tutto si dissolve, e si scopre che non è altro che un sogno – o forse un’allucinazione – di Pink, il protagonista della storia. Il video si chiude con lo squillo secco di un telefono, suono che introduce la traccia successiva dell’album, “Mother”, segnando un passaggio decisivo nella narrazione.
Spiegazione dei versi
Non abbiamo bisogno di istruzione
Non abbiamo bisogno del controllo del pensieri🌐 We don’t need no education
We don’t need no thought control
La celebre frase “We don’t need no education”, pur essendo grammaticalmente scorretta per via della doppia negazione, ha un impatto comunicativo fortissimo. Non è un errore ingenuo, ma una scelta deliberata che rafforza l’urgenza e la rabbia del messaggio: i ragazzi non stanno semplicemente rifiutando l’istruzione, ma stanno protestando contro un’educazione che li tratta come contenitori vuoti da riempire, come menti vergini – una sorta di tabula rasa – su cui imprimere, senza possibilità di scelta, pensieri prefabbricati e comportamenti imposti.
Non si parla solo di nozioni scolastiche, ma di una forma di addestramento sociale che mira a produrre individui conformi, cittadini modellati secondo regole prestabilite e privi di individualità.
Niente sarcasmo maligno in classe
Insegnante, lascia in pace i ragazzi🌐 No dark sarcasm in the classroom
Teacher, leave those kids alone
L’espressione “dark sarcasm”, che potremmo tradurre come “sarcasmo maligno” o “sarcasmo oscuro”, si riferisce a un atteggiamento particolarmente pungente da parte delle figure di autorità – in particolare gli insegnanti – che usano il sarcasmo non come semplice ironia, ma come strumento per umiliare e sminuire.
Si tratta di un modo subdolo di esercitare potere, facendo sentire i ragazzi inadeguati, confusi e impotenti. Non è una forma di violenza fisica, ma psicologica, e proprio per questo ancora più sottile e pervasiva.
Questo tipo di atteggiamento rappresenta un meccanismo profondamente radicato in certe strutture sociali, un sistema di controllo travestito da disciplina, che contribuisce a spegnere la libertà di pensiero e l’autostima degli individui fin dalla giovane età.
Alla fin fine, è solo un altro mattone nel muro
Alla fin fine, sei solo un altro mattone nel muro🌐 All in all it’s just another brick in the wall
All in all you’re just another brick in the wall
La canzone, così come l’intero concept dell’album, si rivolge idealmente a tutte le figure esterne al protagonista: l’insegnante severo, il genitore soffocante, l’autorità cieca e inflessibile. Ognuno di loro, nel vissuto emotivo di Pink, diventa un altro “mattone” nel muro del suo isolamento.
Non sono soltanto persone reali, ma simboli delle ferite, delle delusioni e delle costrizioni subite. Ogni figura che lo ha ferito, tradito o deluso si trasforma in un ulteriore strato di difesa, una barriera che lo separa dal mondo esterno.
In questa prospettiva, il muro non è solo protezione, ma anche prigione: una struttura costruita mattone dopo mattone, che però finisce per intrappolare lo stesso protagonista che lo ha eretto.